Il film racconta la crisi in ogni sua essenza, dal matrimonio all’essenza stessa del cinema, raccontando i processi e gli scontri tra regista e produttore
La trama de Il disprezzo di Jean-Luc Godard, tratto dal romanzo di Alberto Moravia , può essere riassunta così. Una crisi di matrimonio che ha la sua origine in un appartamento romano. Forse fin troppo superficiale. Ma non del tutto errato. Paul Javal (Michel Piccoli) è uno scrittore che risiede a Roma. Condivide la sua vita insieme alla moglie Camille (Brigitte Bardot), e con ottime intenzioni. Si amano, e alla follia. E questo sentimento si è tradotto in una relazione stabile e in questo grosso investimento sul futuro. Ma per permetterselo, Paul deve trovare un lavoro redditizio. E il cinema, per uno scrittore, è l’unico in grado di permettergli delle entrate economiche. L’occasione arriva per mano del produttore americano Jerry Prokosch, il quale gli offre non solo l’opportunità di riscrivere la sceneggiatura dell’Odissea di Omero, ma di lavorare con un mostro sacro del cinema, Fritz Lang. Serve qualcosa di «audace», usando le parole del produttore. Ma la verità è che vuole cambiare la struttura stessa del racconto, considerato poco commerciale secondo gli standard hollywoodiani.
Cinema, arte o prodotto?
Può sembrare una storia semplice, una delle tante che mostra una crisi di coppia che sta per avere una svolta. La storia del cinema ne è piena, a partire dall’epoca classica. Ma per Godard questo è solo il pretesto per raccontare altro e andare più in profondità su uno dei temi cardine del cinema stesso. Non a caso il film comincia con una inquadratura atipica, che, insieme alla voce del regista, segue il movimento di un cameraman, l’autore della fotografia Raoul Coutard, intento in un lungo piano sequenza. Il messaggio è chiaro. Il tema è altro, è il cinema e il suo immediato futuro. La scelta di Fritz Lang è tra l’altro un omaggio di Godard a uno dei registi che più rappresenta l’arte nella sua concezione pura, senza compromessi produttivi. E ne Il disprezzo, in una delle tante sequenze sparse nella pellicola, si manifesta uno scontro intenso tra una visione artistica di un film e quella strettamente commerciale, dove il denaro è l’unico strumento in grado di cambiare le sue sorti.
Questo aspetto è centrale, perché non influisce solo sul flusso narrativo della storia, ma determina la sua sorte anche a riprese concluse. La versione italiana uscita nelle sale conteneva infatti diverse modifiche da parte del produttore, all’epoca Carlo Ponti. Un’edizione, rinnegata dallo stesso Godard, rimontata, tagliata (il film si ridusse a 84 minuti), ridoppiata, e per giunta con una colonna sonora differente da quella impostata dall’autore (si passò dal suono ad archi di George Delereu a quello jazz di Piero Piccioni). Ma Godard, seppur accettando alcuni compromessi inevitabili, lascia a Lang uno spazio di libertà assoluta, permettendosi anche risposte audaci (del resto era quello che chiedeva lo stesso Prokosch). La più lampante è sul cinemascope, il sistema di ripresa usato per questo film: «non è adatto agli uomini. È fatto per i serpenti. E per i funerali». E la reazione del produttore, che, indispettito, rovescia le bobine a terra, non tarda ad arrivare.
L’odissea termina sull’isola di Capri
Queste scintille non scattano per quanto riguarda la crisi intima tra lo scrittore Paul Javal e Camille. E non è perché la macchina da prese non abbia ripreso a sufficienza. Godard copre un’intera giornata passata nell’appartamento. Un po’ per giocare con le regole del cinema classico, che cerca di togliere il superfluo lasciando spazio ai momenti salienti e di maggiore intensità; un po’ per marcare l’incapacità dell’uomo di poter controllare tutto. Un piccolo gesto, anche impercettibile, può essere fatale per le sorti dei protagonisti. E non si può certo dare la colpa agli Dei, o a un unico Dio, per questo. È l’uomo stesso a determinare il suo stesso destino. Nel bene o nel male. E qui si torna al punto di partenza. A quella casa perfetta e al compromesso per mantenerla. Il lato positivo è che questo li ha portati all’isola di Capri, dove si è girata una delle sequenze più incantevoli di tutto il film. Una lunga panoramica in campo lungo trasporta Paul verso la vetta di Villa Malaparte, un edificio moderno incastonato sulla roccia omaggiato anche dal festival di Cannes nella locandina del 2016. Basterebbe quella scena a riassumere tutti i punti fin qui toccati. L’essenza stessa del cinema, capace di trasmettere emozioni attraverso l’occhio del suo autore, e, nel caso specifico de Il disprezzo, uno smarrimento e l’illusione di poter trovare tutte le risposte in questo viaggio.
Riccardo Lo Re