Da Genova a Capri, il lungo percorso del raviolo, uno dei prodotti tipici del territorio
C’è sempre un inizio e una fine. La storia dei ravioli è di quelle antiche. Sono partiti da molto lontano (precisamente dalla Liguria), ma non si sono mai fermati. Hanno raccolto tutto il possibile da ogni tradizione locale (merito del suo involucro), prima di arrivare a destinazione, Capri. I ravioli capresi, però, si differenziano dalle altre tipologie per alcune caratteristiche. Il primo è che l’uovo non si trova nell’impasto, a base di farina, bensì nel cuore del ripieno, la farcia. È lì che si concentra tutto il suo sapore mediterraneo, frutto dell’unione di diversi ingredienti. La caciotta è il primo. Ma non manca il parmigiano e la maggiorana, una pianta aromatica che offre quel quid in più al piatto. E da qui, le varianti sono innumerevoli. Sta tutto nel valore e nella esperienza dello chef, che può decidere di servirlo con un ottimo sugo al pomodoro, in modo da equilibrare il gusto di questo prodotto, o se invece restituire densità con un tocco di burro e salvia. E c’è anche la versione fritta, perfetta come antipasto in modo da prepararsi al meglio alle altre portate.

Cenni storici
Eppure, sulle origini del raviolo c’è ancora un grosso dibattito. Addirittura, si sono trovati delle fonti che risalgono all’epoca romana. L’autore in questione era Marco Gavio Apicio, una figura molto abile nella cucina del tempo. In una delle sue specialità, la torta di Apicio, si parla di patinam apicianam sic facies, una sorta di antenato lontano del raviolo così come lo conosciamo. Ma se si dovesse trovare una testimonianza vicina a questo piatto, bisogna fare un balzo in avanti al Medioevo, tra il XII e il XIII secolo. È Genova il luogo in cui si sviluppa questo prodotto. Il nome è ancora al centro di diverse interpretazioni. C’è chi ritiene prenda spunto da “rabiola” (piccola rapa); chi invece sostiene che il termine sia dovuto al concentrato aggrovigliato del ripieno (“rovigliolo”). Il segreto del suo nome potrebbe celarsi dietro al cognome del suo cuoco, Ravioli, il primo a produrre questo formato a Gavi Ligure, all’epoca sotto il controllo della Repubblica di Genova.

I testi che parlano dei ravioli
Insomma, anche qui il groviglio di informazioni impedisce di avere la certezza sull’etimologia di questo piatto. Ma sulla loro presenza sul territorio ligure si trovano alcune tracce nel Paesaggio agrario in Liguria, in cui si cita un contratto tra un colono savonese e il suo padrone. Al centro c’era il pranzo, che, secondo il patto, doveva essere di tre persone e composto da quattro prodotti che già erano parte della tradizione italiana: pane, vino, carne e, infine, i ravioli. Dunque, non ci si deve stupire della sua diffusione oltre i confini liguri. Si sa per certo che i ravioli, dopo un secolo, si sono spostati verso Sud. Era il 1284. E già l’uomo, secondo le parole di Fra’ Salimbene, era già in grado di realizzare ricette complesse e prelibate come i ravioli. La prima tappa è stata l’Emilia Romagna, come sostiene l’autore da Parma nella sua Cronica: «Nello stesso anno mangiai per la prima volta, nel giorno di S. Chiara, i ravioli senza involucro di pasta; e questo lo dico per mostrare quanto s’è raffinata la ghiottoneria degli uomini per i commestibili, a confronto di quella degli uomini primitivi, i quali erano contenti de’ cibi semplici, che loro imbandiva la madre natura» (Fra’ Salimbene, Cronaca Di Fra Salimbene Parmigiano: Dell’Ordine Dei Minori, Volume 2).
Il Decamerone di Boccaccio
Ma la prova più forte, e forse più conosciuta, della sua presenza in Italia la offre Boccaccio nel suo Decamerone, durante l’ottava giornata. La terza novella introduce al lettore il Paese di Bengodi, dove si sostiene che al suo interno si celava un metallo dell’invisibilità, l’elitropia. Ma è proprio all’inizio del racconto che si trova un paragrafo singolare, in cui si si paragona il borgo a un luogo dove «si legano le vigne con le salsicce, (…) ed eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevan che far maccheroni e raviuoli, e cuocergli in brodo di capponi». Ovviamente era un modo per prendersi gioco del povero Calandrino, ma chi non vorrebbe vivere in un posto del genere. Fortuna che c’è Capri a restituire uno di questi prodotti unici. Dell’elitropia non c’è ancora traccia.
Riccardo Lo Re