Raffaele Castello

Raffaele Castello, l’amato pittore caprese

Frammenti di arte e di vita dell’indimenticato artista giramondo 

Nella narrazione biografica di un artista viene dedicato giustamente molto spazio alla sua evoluzione culturale, agli incontri determinanti, allo stile e al messaggio delle sue opere. Rimangono inevitabilmente in ombra quegli aspetti della vita che appaiono meno interessanti o comunque non adatti a inquadrarne il suo profilo intellettuale. Eppure bastano poche parole fuori dal coro per infrangere questa consuetudine, come nel caso del pittore caprese Raffaele Castello, sul quale sono stati redatti corposi volumi monografici, ma nessuno di questi ci restituisce il carattere gioviale e le qualità umane del personaggio, che emergono, invece, da un’unica pagina di un libro dimenticato, di quelli che si trovano (talvolta) sulle bancarelle. 

Viaggi e arte: Castello pubblico

Prima di rivelare la nostra fonte misteriosa conviene, però, raccontare qualcosa del Castello pubblico, di colui che con i suoi dipinti ha comunque lasciato un’impronta significativa nell’arte astratta italiana del ventesimo secolo. Nacque a Capri nel 1905 e all’isola rimase sempre visceralmente legato, nonostante abbia lavorato e abitato in mezza Europa, a cominciare dal 1929, quando se andò a studiare belle arti all’Accademia di Varsavia. Nella capitale polacca pare abbia incontrato Kandinsky, poco prima di trasferirsi a Dusseldorf per frequentare i corsi di Paul Klee. Tornò a Capri verso la metà degli anni Trenta, quando il regime fascista aveva già imposto al panorama artistico i suoi rigidi canoni stilistici. Ma Castello amava sperimentare e i suoi quadri ricchi di suggestioni costruttiviste, o talvolta surrealisti, poco erano in sintonia con il clima culturale del momento. Nell’isola natia non gli mancarono comunque gli stimoli creativi: possiamo realisticamente immaginarlo seduto su un muretto a chiacchierare con Curzio Malaparte, Jean Paul Sartre, Roger Peyrefitte, Otto Sohn-Rethel o Alberto Moravia. Li frequentava tutti: in particolare era intimo amico di Giuseppe Ungaretti e Enrico Prampolini. Negli anni successivi, riprese i suoi vagabondaggi continentali con lunghi soggiorni in Belgio, Francia, Olanda, Cecoslovacchia e Germania. Una vita raminga che si concluse nel 1969 a Napoli, completando nel ventre partenopeo il cerchio delle tante peregrinazioni. 

Camminatore e buongustaio: Castello privato

Potremmo ora dilungarci sulle influenze artistiche e sulle caratteristiche delle sue opere, ma in questo articolo preferiamo concentrarci sul lato umano di Castello, decisamente trascurato dai tomi d’arte. Un’utilissima fonte d’informazioni sulla sfera privata del pittore è invece un vecchio libro con uno strano titolo: Il corno del postiglione. Il volume, pubblicato nel 1973 dalla Società Editrice Napoletana, raccoglie le esperienze di viaggio del bravo giornalista partenopeo Mario Stefanile. In un capitolo dedicato agli autunni trascorsi in varie città del globo, l’elzevirista e critico letterario de Il Mattino ci racconta di alcune sue visite all’amico pittore quando quest’ultimo abitava nel quartiere latino di Monaco di Baviera, evidenziando in poche righe quel conflitto interiore tra il costante desiderio di evadere e il richiamo della terra madre, che forse ha accompagnato Castello per tutta la vita. «In una stradina quasi campestre» – ricorda Stefanile – «perduta fra platani e salici piangenti su un gomito stretto dell’Isar, abitava il mio amico pittore Raffaele Castello e qui d’autunno io venivo a ritrovarlo, nella sua casa ordinata come un museo, dove l’origano di Capri e i pomodori a grappoli di San Marzano stavano in perfetto contrappunto con un piccolo Kandinsky e con un grandioso Munch, fra il seno opimo e ridondante di una ridente venere di bronzo liberty e una conchiglia che serbava nel suo grembo roseo gli echi di Matromania e di Cala Ventrosa. In perpetuo esilio, emigrante per vocazione» – scrive ancora Stefanile – «Raffaele mi accoglieva con grandi gesti delle sue braccia spalancate fra le quali mi tuffavo e stavo al riparo della sua amicizia.» L’affetto tra i due era cementato dalla comune smania di nuove esperienze artistiche e culinarie. «In quegli autunni ormai perduti» – confessa con nostalgia il giornalista – «le foglie morte noi le calpestavamo con allegria muovendoci dalla sua casa silvestre a commuoverci sui Durer e sugli Holbein della vecchia pinacoteca, per andare nelle birrerie del Victualien Markt a provare le trenta specialità di salsicce d’ogni gusto e dimensione, per perderci incantati e felici nel dedalo delle viuzze malfamate dei dintorni della Stazione centrale.» Grazie alla penna sensibile di Stefanile (morto nel 1977, otto anni dopo il suo amico artista), possiamo immaginare il pittore caprese anche lontano dalle sue amate tele, frammenti di quotidianità che ci aiutano a comprenderne il carattere, le piccole e grandi aspirazioni. È un Castello genuino quello che incontriamo sulla pagina, una mente fervida che ci consente di assimilare meglio gli insoliti soggetti delle sue opere. «Quando rientravamo a Keferstrasse 3» – conclude il giornalista e scrittore napoletano –  «cominciavamo i nostri pazzi itinerari notturni sulle ultime tele astratte e sui paesaggi subacquei e sui contorcimenti dei tori feriti che Raffaele aveva dipinto fra l’una e l’altra mia visita.»

Marco Molino