Peppino Di Stefano, maestro e arbitro internazionale, una vita intera per il tennis
Peppino Di Stefano: cinquant’anni di esperienza, 5mila partite internazionali, due Olimpiadi, Los Angeles e Seoul, 25 edizioni degli Internazionali di Roma e 13 finali, 75 partite di Coppa Davis, componente dell’unica terna italiana che ha arbitrato la finale di questo torneo, il suo palmares va di pari passo col patrimonio di aneddoti ed esperienze straordinarie vissute nella sua carriera. Lo incontriamo immerso nel suo elemento naturale: la terra rossa di uno dei campi del Tennis Club Capri dove il maestro Peppino, come è conosciuto da tutti, ogni mattina segue le giovani promesse del club di cui è presidente e direttore sportivo.
Il tennis nel Dna
Suo nonno era il responsabile del circolo nel 1926, legacy familiare che continuò con il padre, e poi Peppino, oggi affiancato dal figlio Giovanni. Una carriera di arbitro iniziata con un’audace alzata di mano quando un giovane Peppino, giudice di linea agli internazionali di Roma, rispose alla proposta del coordinatore, il maestro Bartoni, che chiese se qualcuno volesse provare ad arbitrare. Una vita con l’occhio puntato sulle linee, che Di Stefano ha raccontato in un libro autobiografico Sotto la sedia. È, infatti, quello il luogo dove Di Stefano, figura autoritaria ma cordiale con i giocatori, un po’ psicologo un po’ spauracchio, teneva il suo confessionale, senza l’orecchio invadente della tv moderna a riportare ogni bisbiglio. I campioni dell’epoca d’oro degli anni Settanta, Ottanta e Novanta erano avvolti da un’aura di mistero e le loro vera essenza spesso sconosciuta al pubblico. Il maestro Di Stefano cita l’esempio di John McEnroe: «Aveva il suo caratterino, ma in realtà non è mai stato irrispettoso nei miei confronti: il suo comportamento serviva come strategia psicologica per logorare l’avversario, faceva parte del gioco. Chi era davvero impressionante era Ivan Lendl» – ricorda Di Stefano – «campione imperturbabile e implacabile, ma McEnroe qualche volta è riuscito a fargli perdere la concentrazione.»
Il maestro Di Stefano, dall’alto della sua sedia, è sempre stato obiettivo e di polso, cosa che lo ha fatto restare in ottimi rapporti con tanti campioni che lo cercano quando sbarcano a Capri, ma nella sua carriera non sono mancati i momenti difficili. Tra questi uno in bilico fra sport e diplomazia internazionale. «Semifinale di Coppa Davis, USA contro Argentina, sullo sfondo le tensioni per l’appoggio degli Stati Uniti al Regno Unito per la questione Falklands» – ricorda Di Stefano – «in campo McEnroe contro Josè Luis Clerc. La sera prima a cena il Console degli Usa mi aveva pregato di fare attenzione a non creargli ulteriori problemi. Purtroppo, McEnroe, in vantaggio all’ultimo game, già ammonito e a rischio default, a seguito una decisione contestata, tirò una palla a un giudice di linea, sfiorandolo. In quel momento se mi avessero punto con uno spillo non sarebbe uscita una goccia di sangue, ma mi trovai costretto a infliggere a McEnroe un game di penalità e alla fine perse il match. Non mi rivolse la parola per sei mesi.»
Tra vip, habitué e giovani allievi
Tante volte è stato chiesto al maestro Di Stefano di dedicarsi full-time all’arbitraggio, ma il suo cuore era sempre ai campi di via Camerelle. Anni indimenticabili con tanti vip, dalle gemelle Kessler, Stephanie Seymour, Luca Cordero di Montezemolo a Bernard Arnault, ceo di LVMV che, ogni anno, è presenza fissa al Tennis Club Capri, agli affezionatissimi frequentatori Alessandro Preziosi, Caterina Balivo, la famiglia De Laurentiis e tanti tennisti: Giustino, Starace, Bolelli, Fognini, Cilic. Ma le sue più grandi soddisfazioni, comparabili con quelle della sua carriera da arbitro, vengono dai suoi allievi, giovani e giovanissimi che segue con passione fin dal ‘74. E proprio mentre stiamo concludendo la nostra chiacchierata, una sua piccola allieva gli chiede: «Mio padre dice che sei famoso, come mai?». Il maestro ride: «Perché sono bello!» e la bambina risponde alla battuta del simpaticissimo maestro con un rovescio al fulmicotone: «Non credo proprio…».
Ugo Canfora